Un articolo sul sito della rivista Internazionale affronta il tema delle condizioni di vita nelle carceri italiane partendo dal primo tragico suicidio del 2024. Un ragazzo di 23 anni, dopo aver manifestato più volte l’intenzione di suicidarsi, l’ha fatto nel carcere di Ancona. A Matteo Concetti, questo il nome del giovane, in passato era stato diagnosticato un disturbo bipolare a cui era seguita una dipendenza da sostanze. Anche un periodo di due anni in una comunità non aveva alleviato la situazione.
Purtroppo queste due condizioni spesso si intrecciano tra loro in modo molto stretto, rendendo la situazione di vita e di presa in carico dai servizi molto complessa. Una complessità che le carceri del nostro paese, per come sono sono realmente oggi, non riescono a gestire, e in alcuni casi peggiorano le cose.
Matteo aveva avuto diritto ad una misura alternativa, che però gli era stata revocata per via di un ritardo di un’ora al rientro obbligatorio a casa. Ritornato in carcere aveva aggredito un agente ed era stato rimesso in isolamento.
Da qui la minaccia di “ammazzarsi” raccontata alla madre e ad alcuni agenti. Inoltre la madre ha raccontato che il figlio si era procurato dei tagli alle braccia e che era costretto a tenere due paia di pantaloni per il freddo eccessivo. Condizioni che, nonostante fossero state denunciate dalla madre, hanno contribuito al suicidio di Matteo Concetti.
Tutto questo può essere uno specchio della situazione nazionale?
“Le ragioni che spingono una persona a farsi del male o a suicidarsi sono sempre complesse. Alcune sono intime, certe cliniche, altre hanno a che fare con il contesto. E il contesto oggi in Italia è una miscela pericolosa di condizioni invivibili dentro le carceri, e indifferenza o accanimento fuori dalle loro mura.”
In Italia i dati parlano di un sovraffollamento negli istituti carcerari. Questo significa spazi di vita ridotti all’interno delle celle e tempi limitati negli spazi all’aperto, spesso non adeguati. Secondo l’articolo il problema è che il carcere è diventato la risposta a tutto, dalla malattia psichiatrica, alle dipendenze, alla povertà. Una ricerca dell’associazione Antigone ha rilevato che il “(…) 10 per cento dei detenuti, secondo Antigone, ha problemi psichiatrici gravi, e circa uno su tre fa uso di antipsicotici o antidepressivi.”
Tutto questo a fronte di un sostegno psicologico, in termini di ore e personale, insufficiente.
Come viene affrontata questa situazione? Secondo il giornale Altreconomia con un uso eccessivo di psicofarmaci, soprattutto antipsicotici. “Il 60 per cento del totale, prescrivibili per gravi patologie come il disturbo bipolare o la schizofrenia e utilizzati cinque volte di più rispetto all’esterno”. Uno dei motivi di questa loro enorme diffusione potrebbe essere il fatto che sono impiegati per calmare le persone, al posto degli ansiolitici, che danno più dipendenza.”
Il problema allora è anche la mancanza di spazi adeguati per chi ha storie alle spalle come quelle di Concetti. Mancano reparti specifici che possano accogliere persone con disturbi psichici.
“Dalla chiusura nel 2017 dell’ultimo ospedale psichiatrico giudiziario (Opg), chi ha disturbi mentali e compie reati dovrebbe finire nelle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (rems). Ma le rems sono poche e con pochi posti, per cui nelle 31 strutture di questo tipo i pazienti sono 632, quelli in lista d’attesa 675, e quelli in carcere con problemi anche gravi.”
Una soluzione possibile sarebbe quindi quella di aumentare le occasioni e i luoghi, sul territorio, dove poter scontare pene alternative. Periodi gestiti dalle comunità e dalle reti sociali (fatte da operatori del terzo settore, uffici del lavoro funzionanti, volontari, esperti di dipendenze e salute mentale) che sarebbero una risposta adeguata alle richieste di aiuto e mediazione dei conflitti.
24 Dicembre 2024
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