Franco Corleone interviene su l’Unità con una riflessione sulle carenze strutturali del sistema carcerario e sulle condizioni di vita dei detenuti. Corleone ripercorre la lunga stagione di riforme e di leggi, rilevando i passi indietro degli ultimi anni. Conclude l’intervento con una serie di proposte che riguardano soprattutto l’attuazione di diritti dei detenuti, sulla base della implementazione di leggi già esistenti.
“(…) Il 2024 si presenta con caratteristiche di preoccupante novità. Le presenze in carcere aumentano di quattrocento persone al mese e a fine giugno si è toccata la cifra di 61.480, di cui 2.682 donne, rispetto alla capienza regolamentare di 51.234? i non italiani sono 19.213 con numeri significativi di appartenenti all’Albania (2008), al Marocco (4018), alla Nigeria (1148), alla Romania (2151), alla Tunisia (2039), all’Egitto (850), all’Algeria (463), al Gambia (403). Il ministro Nordio blatera di espulsioni o di esecuzione della pena nel paese di origine, ma non c’è un progetto di rimpatrio assistito.
Quando mi è capitato di avere responsabilità di governo misi in moto azioni di riforma e insieme ad Alessandro Margara scrivemmo il nuovo Regolamento di esecuzione dell’Ordinamento penitenziario, entrato in vigore nel 2000 e in quei cinque anni, tra il 1996 e il 2001, forse l’unica stagione coerentemente riformatrice, furono approvate leggi significative come la Simeone-Saraceni per eliminare disparità di classe nell’accesso a possibili misure alternative, la legge Smuraglia sul lavoro, la legge Finocchiaro per le detenute madri, la legge per l’incompatibilità con la detenzione per i malati di Aids e altre gravi patologie.
Furono avanzate anche proposte per superare gli Opg (realizzata finalmente nel 2017 dopo l’approvazione della legge 81 e grazie al lavoro del Commissario unico per la chiusura dei sei manicomi giudiziari) e per la riforma della legge Iervolino-Vassalli sulle droghe. La Commissione Grosso elaborò il miglior testo di un nuovo Codice penale per archiviare il Codice Rocco, architrave dello stato etico del fascismo, tuttora in vigore dal 1930. Certo non va trascurata l’approvazione successiva della legge sulla tortura che oggi viene messa in discussione e va tenuto presente il valore della sentenza Torreggiani emessa dalla Corte europea dei diritti umani (Cedu) nel 2013 che ha condannato l’Italia per trattamenti disumani e degradanti.
Ora con il Governo Meloni che ha come orizzonte lo stravolgimento dell’articolo 27 della Costituzione occorre una prova di verità.
Anche se può apparire un paradosso proprio in questo momento va lanciato un progetto di riforma radicale. Bisogna assumersi la responsabilità di avere perduto occasioni irripetibili e presentare un programma di cambiamento non timido che costituisca lo spartiacque tra i garantisti e i punizionisti. Occorre la forza e l’originalità di riuscire a mettere in rete e sinergia migliaia di realtà, associazioni e sindacati, consapevoli che su un fronte così difficile l’ordine sparso, gli orticelli, gli editoriali dei grilli parlanti non aiutano. Va ripresa con intransigenza la concezione del carcere come extrema ratio. L’innovazione della legge Cartabia che prevede la possibilità di concessione delle misure alternative da parte del giudice dalla cognizione, ad esempio, potrebbe favorire meno ingressi in carcere, ma al momento trova scarsa applicazione e si scontra con dati terribili. Oltre ai 728 detenuti al 41bis quanti sono oggi i detenuti in alta sicurezza, nelle sue varie forme?
Circa 12.000? Sono numeri che spazzano via il vaniloquio (interessato) sulle necessità di nuovi istituti e sulla mancanza di personale di polizia penitenziaria. Occorre una riflessione sulla composizione sociale dei detenuti per capire logiche e comportamenti che spingono a dipingere i reclusi come tossici e matti, proponendo soluzioni reazionarie come il ritorno ai manicomi o alle comunità terapeutiche chiuse e mettendo in discussione la competenza del diritto alla salute affidata al Servizio sanitario pubblico.
I problemi sono enormi, ancorché non nuovi. Da dove partire? Dalla consapevolezza che il carcere è il sostituto autoritario delle politiche di welfare, è il campo di concentramento per i poveri, a dispetto delle retoriche sulla “cultura della legalità” che hanno imperato negli ultimi decenni, sottraendo capacità di analisi e di proposta. Poi, chiarito il contesto e lo scenario, bisogna scrivere un’agenda delle ferite aperte, a cominciare dalle previsioni non realizzate del Regolamento del 2000 che prevedeva cinque anni per la loro realizzazione: diciotto anni di ritardo costituiscono un reato di omissione di atti di ufficio? Sicuramente qualche azzeccagarbugli sosterrà che il termine non era perentorio ma ordinatorio, ma io affermo a chiare lettere che siamo di fronte a un crimine politico, che va immediatamente sanato.
Una citazione parziale delle inadempienze: servizi igienico sanitari, mense e refettori, spacci per la vendita dei prodotti essenziali per abbattere il sistema dell’affidamento a imprese del malaffare del vitto e del sopravvitto, locali per i previsti colloqui lunghi in attesa dell’affermazione del diritto alla affettività e sessualità. Occorre dire alto e forte che il sovraffollamento è provocato dalla detenzione sociale: è questa che va affrontata e risolta.
In concreto, si tratta del prodotto della legge proibizionista sulle droghe, di quella sull’immigrazione, della persecuzione dei poveri. Vanno approfonditi gli effetti della legge Iervolino-Vassalli del 1990 sulla giustizia e sul carcere. Il 26 giugno è stato presentato il 15mo Libro Bianco redatto dalla Società della Ragione e da un cartello di associazioni tra cui Forum Droghe, Antigone, Cnca, Associazione Luca Coscioni, che ha come titolo Il gioco si fa duro. Il 34,1% dei detenuti presenti nelle 189 prigioni del nostro Paese, è causato dalla violazione dell’articolo 73 del Dpr 309/90 per detenzione o piccolo spaccio (19.000 persone) e il 28,9 è dovuto a quelli che sono definiti grossolanamente “tossicodipendenti” (17.405 individui). Calcolando una area di sovrapposizione possiamo con certezza affermare che oltre il 50% dei detenuti vanno ascritti a una questione sociale.
Sfido Alfredo Mantovano, esponente di spicco del Governo Meloni e responsabile del Dipartimento Antidroga a coltivare la sua ossessione contro la canapa senza il supporto del codice penale e della comminazione di pene spropositate per un reato senza vittima. Giochi la partita dell’astinenza sul piano culturale ed educativo e non della persecuzione fisica e morale. Si faccia promotore di un ridimensionamento delle sanzioni (salvaguardando le previsioni per le ingenti quantità e per le organizzazioni criminali) in modo che per i malcapitati siano accessibili le misure alternative.
Sarebbe facile liberare il carcere di più di trentamila corpi ammassati e utilizzare la vasta gamma di alternative, dall’affidamento in prova alla detenzione domiciliare, dalla semilibertà ai lavori di pubblica utilità.
Già oggi più di 25.000 soggetti utilizzano le misure di comunità, cioè la “Messa alla prova” che all’esito positivo del progetto cancella il processo stesso. Si potrebbe anche sperimentare la attivazione delle “Case di reinserimento sociale” per le pene sotto i dodici mesi che già riguardano oltre settemila prigionieri, strutture di piccole dimensioni affidate alla direzione dei sindaci e alla progettazione dei servizi sociali e del volontariato.
La proposta è depositata alla Camera dei deputati dall’on. Magi come primo firmatario con il numero 1064, ha la caratteristica di non avere un carattere premiale. Una pratica non correzionalista e fondata sulla autonomia e la responsabilità. Le risorse ci sono.
Mi riferisco a quelle di Cassa Ammende, che vanno utilizzate non per progetti burocratici ma con affidamenti agli enti locali e al terzo settore. Occorre una pratica di welfare ex post, almeno, vista l’assenza di un intervento di prevenzione sociale. È indispensabile un’applicazione massiccia delle misure alternative per tutti coloro che hanno un fine pena fino a tre anni, si tratta di 22.680 persone (7.648 fino a un anno, 8201 tra uno e due anni, 6831 tra due e tre anni) per cancellare una contraddizione ingiusta e di classe tra chi può usufruire di misure senza entrare in carcere o accedere alla Messa alla Prova e chi invece è destinato a stare fino all’ultimo giorno in carcere, uscendo incattivito e destinato alla recidiva quasi certa.
Per realizzare questi obiettivi minimi, occorre un movimento di pensiero e di lotta, dentro e fuori dal carcere.
La riforma carceraria del 1975 si ottenne con una grande discussione pubblica e la legge Gozzini del 1986 fu discussa e in alcuni punti elaborata nelle carceri. In questi anni si è sviluppata una rete straordinaria di associazioni del volontariato che hanno ben presente la necessità di affermare nell’istituzione totale i valori della Costituzione e il sistema dei diritti fondamentali di cittadinanza. Vi sono le condizioni per decidere una strategia che deve vedere come controparte il parlamento, la magistratura, l’amministrazione penitenziaria, le regioni titolari della sanità.
In questi tempi torbidi si è accesa una luce.
La Corte Costituzionale a gennaio ha sancito con una sentenza storica che il diritto alla affettività e a colloqui riservati in carcere rappresenta un diritto inalienabile. Un diritto immediatamente esigibile: da questa vittoria costruita in tanti anni di impegno e da ultimo con un Appello di sostegno alla iniziativa del magistrato di sorveglianza di Spoleto, Fabio Gianfilippi, redatto dal costituzionalista Andrea Pugiotto con l’iniziativa della Società della Ragione, può partire una mobilitazione per rivendicare diritti, dignità e umanità.
Il ministro Nordio e la sua corte di sottosegretari è impegnato a impedire la realizzazione di un principio diffuso in tutti i Paesi. Occorre chiamare lor signori a rispondere per il reato di omissione di atti di ufficio ma soprattutto bisogna metterli sul banco degli imputati per insulto alla Costituzione. Occorre ripartire con un orizzonte alto e con l’ambizione dettata dall’ottimismo della volontà anche se con la consapevolezza del pessimismo della ragione.”