La serie tv, in cinque puntate, “SanPa” sulla comunità di San Patrignano, ha acceso nelle settimane scorse un animato dibattito pubblico, non solo sulla storia della comunità riminese fondata da Muccioli, ma più in generale sulla questione droghe. Continuiamo a ospitare alcuni voci del dibattito, attraverso l’intervento di Susanna Ronconi di Forum Droghe, che argomenta l’importanza di modelli d’intervento e di pratiche comunitarie alternative coeve all’esperienza di San Patrignano, in particolare contrapponendo la figura e l’operato di Basaglia a quella di Muccioli. “Perché se per qualche tempo qualcuno ha pensato che essere definito malato era meglio che essere definito criminale, in realtà si è scoperto ben presto che non era questa la salvezza, per chi consuma droghe le due dimensioni sono intrecciate, non alternative, sono una doppia gabbia. E in questo paradigma, anche la cura rischia di essere una detenzione, una contenzione. Dovrebbe fare scandalo (e anche sollecitare ironia, se se ne potesse ridere) sentir dire che un contesto correzionale, disciplinare e violento che vuole “curare”, “salva” dal carcere. Tutto quello che apprendiamo sul metodo Muccioli, non dai detrattori ma dalle sue stesse parole, non è che la collaudata pratica dell’istituzione totale: mortificazione e decostruzione del sé, umiliazione e minorazione, profanazione, un organizzato “assalto al sé”, direbbe Goffman. Goffman alla romagnola, evidente, chiaro, inequivocabile, dispositivi rispetto ai quali le parole stanno a zero. Il massimo di una rabbia dolorosa e del disgusto etico l’ho provato non davanti alle catene, ma all’umiliazione di quel ragazzo – cui al ricordo oggi, da uomo, ancora trema la voce – quando viene deriso pubblicamente per i suoi scritti e la sua dignità intellettuale, che andava negata e mortificata, o della ragazza catturata e riportata in comunità, fragile piangente e smarrita, di cui si ride davanti alle telecamere, in un abbraccio falso, di patriarcale autoritarismo, che al pubblico ricorda la sua prostituzione. Davvero “non ne sappiamo abbastanza”?.
(…) Accanto alla mancanza di scandalo, di una parte del dibattito in corso mi colpisce la smemoratezza. Del contesto di allora, delle battaglie, del conflitto. Che a dire il vero Sanpa non colma, ed è il suo massimo difetto: chi non ne sa abbastanza o è molto giovane può uscirne convinto che, comunque la si pensi, “c’era solo lui” a rispondere a una situazione drammatica.
No, non c’era solo lui. Tanto per cominciare, negli anni ’70, c’era Franco Basaglia. Che si occupava di matti più che di tossicodipendenti, ma che diceva parole definitive sulla soggettività di chi soffre, sulla cura, sulla contenzione e le catene, sui diritti inalienabili di ognuno, sul concetto stesso di malattia, sulle istituzioni totali. Sulla rivoluzione che operatori e terapeuti dovevano compiere a cominciare da sé e i loro “cattivi paradigmi”. Quel dibattito – anche quello della psichiatria è ahimé un ambiente di smemorati, su questo tutti dobbiamo chiederci dove abbiamo sbagliato, perché abbiamo lascito così poca eredità – non era chiuso nelle professioni, era un dibattito sociale, culturale, in quel contesto degli anni ’70 in cui nessuno si sarebbe accontentato di dire “non ne so abbastanza”, evitando di posizionarsi (bei tempi, per questo). Il paese era attraversato da questo pensiero e da questa rivoluzione, anche l’ambito delle droghe, e ognuno ha potuto saperne e farsene un’idea. Certe argomentazioni che troviamo in Sanpa sono le stesse usate per la contenzione meccanica in psichiatria: è per lui/lei, così non si fa male. Le catene di Muccioli avvengono allora, in quel tempo di radicale svelamento di quell’inganno: nessuno dica che non c’era una alternativa.
No, non c’era solo lui. C’era stata una battaglia per la legge sulle droghe, la n.685 del 75, che riconosceva il consumo problematico e il bisogno di una risposta, ma lo faceva rinunciando a punire il consumatore e investendo sui servizi del territorio, sociali, sanitari e ospedalieri. Una prima vittoria contro psichiatrizzazione e criminalizzazione. E’ vero, il sistema pubblico decollava lentamente e dimostrava molte falle, e viene in mente la legge 180, e come mancanza di coraggio politico, di chiarezza strategica e di efficienza operativa l’hanno fin dall’inizio minata. Ma quella legge 685 e il dibattito e la lotta che l’avevano portata in Parlamento hanno cambiato almeno in parte la cultura su droghe e dipendenze, affidando al welfare pubblico il diritto alla salute dei cittadini, quei cittadini che usano droghe. Quella legge è stata voluta e difesa allora da molte comunità terapeutiche, che di catene non avevano allora e non hanno oggi bisogno. Muccioli e San Patrignano l’hanno sempre osteggiata, così come hanno sempre lavorato a disconoscere ruolo e competenze del pubblico.
No, non c’era solo lui. Alla fine degli anni ’80 e nei primi anni ’90, al culmine del gigantismo e del lobbysmo politico di San Patrignano, c’era uno scontro aperto, teorico ma anche culturale e anche scientifico, e chiare linee alternative di lavoro. Quello stigma e quel paradigma, li abbiamo decostruiti e criticati concretamente, fatti a pezzi, rovesciati, e abbiamo dato vita ad altri servizi, ad altri percorsi terapeutici, ad altre modi di prendersi cura e, a monte, ad altri sguardi sui consumi.”